venerdì 15 febbraio 2008

Testimonianza denuncia

Vi invio questa testimonianza denuncia affinchè possa servire perchè altre/i donne ed uomini che operano in carcere non si sentano lavoratori senza diritti e senza alcuna speranza di giustizia.In un Paese civile lo Stato dovrebbe essere presente con il rispetto delle regole ovunque ed ancor più in una Amministrazione della Giustizia ove vi sono ristretti e lavoratori.
Questa testimonianza è stata resa ad una giornalista di articolo 21 e diffusa su diversi blog,

Filomena Crispino


CITTA' > LeaderBolognaLa lotta di Filomena, ispettore capo di polizia penitenziariadi Alessandra Salvatori
Questa storia inizia 10 anni fa nel carcere di Bologna dove Filomena è ispettore capo di polizia penitenziaria e dirigente sindacale. E’ il 1998 e un donna con un grado, e per di più dirigente sindacale, in certi ambienti non sempre è ben vista.
Le capita, a volte, di essere derisa dai suoi superiori e di subire pressioni che limitano il suo ruolo anche quando si dimostra all’altezza, scrupolosa e attenta nel lavoro.
Dopo qualche tempo questa situazione inizia a pesarle. Nonostante abbia un grado non può svolgere le sue mansioni liberamente e le vengono assegnati regolarmente i turni peggiori della settimana, così decide di rivolgersi all’autorità competente, il Provveditorato Regionale per l’Amministrazione penitenziaria dell’Emilia Romagna, anche perché, si accorge, tutto questo inizia a capitare anche ad altre sue colleghe e colleghi.
Un giorno, per esempio, le viene ordinato di eseguire una perquisizione in tre celle per trovare un’arma; non convinta del risultato negativo decide di far perquisire una quarta camera dove, nel materasso, trova nascosta una forbice di 15 centimetri che consegna ai superiori. Pur avendo raggiunto un buon risultato quell’anno le abbassano le note di qualifica perché “incapace di prendere iniziative”.
La situazione diviene ogni giorno più pesante.

Quando nel 2000, come dirigente sindacale, denuncia insieme ai suoi colleghi al provveditorato, al sindaco ed alla Usl la mancanza di igiene in caserma e una pericolosa commistione di perdita d’acqua e corrente elettrica nelle docce, riceve in risposta un’ispezione intimidatoria nella propria camera e l’apertura di un armadio con i propri effetti personali, senza che ne sia informata né prima né dopo.
Non avendo ottenuto risposte né alcun intervento contro questo abuso da parte del Provveditore Regionale scrive una lettera all’allora sottosegretario agli Esteri Fassino che riconosce che bisogna occuparsene e ne demanda la Commissione per le Pari Opportunità del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.

A febbraio 2001 Filomena viene ricevuta dal Ministero e denuncia pubblicamente quanto le sta accadendo. Ad aprile è al convegno sindacale “Le donne nella polizia penitenziaria: le dispari opportunità”.
Nel suo intervento Filomena denuncia: “Molti colleghi non hanno accettato la nostra presenza all'interno dei reparti maschili. Chi gestì il tutto ha lasciato alimentare forti conflittualità piuttosto che mediare. Non una motivazione, non un confronto professionale e operativo... solo tanta amarezza, delegittimazione e discredito. La nostra immagine di donna che riveste un ruolo professionale gerarchicamente superiore, screditata doppiamente anche agli occhi del personale subalterno. Attualmente infatti il paradosso: pur essendo superiori gerarchici dipendiamo funzionalmente da inferiori gerarchici con turni dalle ore 6 del mattino che i nostri colleghi uomini non effettuano. 4 ispettrici su 7 sono state relegate al Reparto femminile, numero spropositato in rapporto alle detenute presenti…”.
Lo stesso Presidente della Commissione Pari Opportunità del Dap incontra difficoltà nel recepire gli atti delle segnalazioni fatte da Filomena. E’ a questo proposito che il Presidente della Commissione Armida Miserere, nomina per la prima volta la parola chiave che definisce i ripetuti atti intimidatori: “Siamo al limite del mobbing”.
Filomena si è rivolta intanto anche alla consigliera provinciale ed ha scritto anche a Marzia Barbera, allora Consigliera Nazionale di Parità denunciando ciò che sta vivendo. Ormai il tentativo di isolamento è palpabile.
Ma il Provveditorato non interviene neppure questa volta e neppure su sollecitazione del Ministero. A Filomena, che non ha mai mollato un momento, ci sono voluti tre anni e un’ordinanza del giudice per avere quegli atti pubblici che il Dap non le forniva.

Intanto le molestie e le vessazioni continuano, tra negazioni di ferie e permessi, derisioni, insulti e quant’altro, tanto che Filomena decide di rivolgersi al Tar.
Intanto, estenuata dalle continue pressioni psicologiche e sfiduciata dall’assenza di interventi risolutivi da parte dell’Amministrazione penitenziaria, si ammala.
“Disturbo post traumatico da stress” è la diagnosi della clinica per le malattie del lavoro di Milano che la segue dal 2001. Filomena si rivolge alla Clinica per ben quattro volte. E’ un periodo difficile, vorrebbe tornare a lavoro per dimostrare anche agli altri quello che lei ha capito e cioè che non è pazza, ma è difficile davanti a chi le ha fatto del male e così per tre volte prova a tornare a lavoro e ogni volta, di nuovo, si ammala. La diagnosi stavolta è “ipertensione arteriosa per prolungata esposizione ad uno stress psicoemotivo nell’ambiente di lavoro”.
Filomena decide allora di procedere con una denuncia per mobbing nel febbraio 2004, ma è qui che scopre il decreto ministeriale del 1998 con il quale si stabilisce che la polizia penitenziaria è sottoposta solo ad organi di controllo interni: come a dire che chi ha commesso la violazione è incaricato di vigilare e prendere i provvedimenti opportuni.
Intanto ormai sono divenuti quattro i dipendenti seguiti dalla Clinica del Lavoro: tutti dipendenti nello stesso carcere, tutte donne.

Ma neanche durante la malattia a Filomena è permesso di vivere in pace e così i suoi superiori inviano il suo certificato medico alla Motorizzazione perché provveda alla revisione della patente senza che nessun medico abbia determinato la perdita dei requisiti alla guida.
A questo punto è infatti la Uil a farsi carico della sua denuncia scrivendo a tutti i responsabili che il “04/03/02 vengono richieste revisioni delle personali patenti di guida inviando “disinvoltamente” certificazioni medica mediante fax alla motorizzazione civile, privi del consenso scritto dell’interessato. La disinvoltura che distingue la prassi adottata nella Casa Circondariale di Bologna è ancor più lesiva poiché viene adottata con ampia discrezionalità solo verso alcuni dipendenti, in alcuni casi addirittura reiterandola.”.
Si avviano numerosi contenziosi civili riferiti a questa prassi illegittima per i quali, il 21 novembre di quest’anno, nell’ultima udienza al Tar, due sue colleghe hanno testimoniato che per la stessa malattia non era stato chiesto loro alcun certificato per la revoca della patente.

“Aver rotto il patto del silenzio” - mi racconta Filomena - “questa è stata la mia grande colpa. Nei periodi in cui rientravo al lavoro, durante la malattia, i superiori mi davano continuamente della pazza e della bugiarda o inventavano storie su di me, ma alcuni colleghi mi hanno sempre creduta. Questa è la cosa più bella di tutta la vicenda, ma anche la più triste, perché hanno iniziato a punire anche molti di loro.”.
Ormai si è giunti all’uso dei procedimenti disciplinari per “rieducarla”. Ogni mese, per cinque mesi le viene fatto un rapporto disciplinare, l’unico sostegno spesso per Filomena è la collaborazione e la stima che riceve da alcuni suoi colleghi, ed è questo che le da la forza di andare avanti.
Passa un altro anno, il settimo. E’ il 2005 quando Filomena rientra definitivamente dalla malattia. Sebbene sia ancora una donna giovane e possegga un ottimo curriculum, i suoi superiori le chiedono di andare in pensione. Il messaggio è chiaro, Filomena deve essere isolata.

Ancora una lotta.
I poliziotti penitenziari che per motivi di salute non possono più svolgere il loro servizio possono andare in pensione o possono chiedere in alternativa di passare ad un ruolo civile non stressante. Filomena lo fa, è ancora giovane, ha 49 anni, e vuole essere lei a scegliere se e quando andare in pensione.
Nel 2004, dopo aver denunciato invano casi di contagio da Tbc tra i detenuti, iniziano a circolare voci sul fatto che sta per andare in pensione. La voce viene diffusa sempre di più tra il personale creandole un ulteriore vuoto attorno.
Qualche mese dopo le arriva addirittura l’assegno con la liquidazione, anche se lei non ha mai firmato le carte per andare in pensione.

Ad aprile del 2006 il Tar Emilia Romagna emette un provvedimento che stabilisce che Filomena può rientrare sul posto di lavoro. Neppure in questo caso, a seguito di una sentenza, l’Amministrazione della Giustizia ottempera ai suoi doveri.
E’ forse il periodo più duro, Filomena rimane per 16 mesi senza stipendio ed è costretta a rivolgersi ai servizi sociali come persona indigente.

A novembre si rivolge direttamente al Ministro della Giustizia Mastella e anche questa volta non ottiene riposta.
A febbraio, è il 2007, una seconda sentenza conferma la prima: “A seguito della persistente inerzia della pubblica amministrazione nel dare esecuzione all’ordinanza del TAR… si emetteva provvedimento di esecuzione… la signora Crispino è da considerarsi di fatto nuovamente in servizio nel ruolo di appartenenza ‘Corpo di Polizia Penitenziaria’ nella medesima qualifica e posizione economica posseduta al momento del suo collocamento in aspettativa.”.
Filomena però è ancora senza un soldo e senza la possibilità di rientrare al lavoro: l’amministrazione penitenziaria preferisce farsi commissariare piuttosto che pagare.

Il 13 giugno con un’interrogazione parlamentare in Commissione Giustizia, l’Onorevole Silvio Crapolicchio dei Comunisti italiani chiede “quali iniziative si intendano adottare al fine di dare esecuzione immediata all’ordinanza del TAR, con la quale si sospendeva la revoca e la dispensa dal servizio nei confronti della signora Crispino, la quale, a causa di una inaccettabile inadempienza dell’Amministrazione Penitenziaria, che si rifiuta di dare ottemperanza a due ordinanze della Magistratura e ad un provvedimento esecutivo del Commissario ad acta, continua a vivere nel più totale sconforto priva di qualunque sostegno economico.”.
La risposta è che Filomena è “già stata ripristinata”. Eppure è solo a fine luglio che otterrà indietro gli stipendi che le sono stati sottratti e vincerà la causa di merito che le permetterà di passare ad un ruolo civile.

Forse questa storia si sta avviando verso un lieto fine, ma Filomena ci mette in guardia: non è certo la sola. Una sua collega è stata costretta ad andarsene, due hanno chiesto il trasferimento, un’ultima sta portando avanti le sue stesse denunce e molti altri si sono rivolti ai loro legali per innumerevoli episodi avvenuti nello stesso carcere.
Queste donne hanno iniziato a collaborare tra loro e a testimoniare della propria esperienza l’una ai processi dell’altra contro quello che Filomena definisce un “atteggiamento camorristico di alcuni funzionari dello Stato”.

Dopo questo racconto le chiedo cosa si aspettava quando ha iniziato il suo lavoro e cos’è che l’ha delusa di più.
“Credo che essere vittima e tacere significhi farsi violentare due volte. Tutto quello che mi capitava non l’ho capito subito, ma con il tempo ho acquistato fiducia in me stessa. Ho un ottimo curriculum, sono una persona che vale e che chiede il rispetto della propria dignità … E non sono pazza, né isterica.
Ora voglio andare avanti per tutte quelle donne che potrebbero trovarsi nella mia situazione e che magari sono più giovani di me e non hanno la mia tenacia. Non per donchisciottismo, ma per senso del dovere e dello Stato e per la mia dignità di donna.
Per questo, quello che più mi ha addolorata è che tutto sia accaduto non in un posto di lavoro privato, ma nello Stato che spesso è rimasto sordo ad ogni richiesta di aiuto lasciandoci sole e in balia di chi ha distrutto la nostra vita.”.

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